Intervista a Bianca Giulia Bardin

Bianca Giulia Bardin

 

Si dice che giochiamo per passione. Di che passione si tratta, dove nasce, come si esprime?

Non ho mai saputo dare una vera e propria risposta a queste domande, forse perché mi sono sempre limitata a pensare al calcio come qualcosa che mi è sempre appartenuto inequivocabilmente. Ma non è così. Il mio amore per questo sport è germogliato lentamente, non sono mai stata la bambina che sognava di vincere un mondiale con il numero 10 sulla schiena, né la tifosa sfegatata che non poteva perdersi una partita la domenica pomeriggio. Eppure, con il tempo, mi sono innamorata dello spogliatoio, del campo, del pallone, dell’adrenalina, dello spirito di squadra, della consapevolezza che i limiti dell’ambizione dipendono anche da quelli della volontà. Ora più che mai, che le ragazze della Nazionale maggiore hanno cambiato la storia del calcio femminile in Italia, so di volere il calcio nel mio futuro, non come unico obiettivo, certo, ma come parte integrante della mia vita e della mia persona. Quando l’Italia femminile ha vinto gli ottavi di finale contro la Cina, mi trovavo in Sardegna: tempo di organizzare gli spostamenti, il venerdì sera ero su un aereo per Milano e dopo tredici ore di viaggio in notturna in un pulmino a nove posti, io e le mie amiche eravamo sugli spalti a Valenciennes a vedere Italia-Olanda, e ne è valsa la pena! Vedere lì, in quello stadio pieno, le ragazze con cui ci confrontiamo quotidianamente durante il campionato, pronte per giocare un quarto di finale di Coppa del mondo, ci ha fatte sentire partecipi e orgogliose più che mai.

E’ stata mia nonna a trasmettermi l’amore per il calcio. Da piccola mi portava allo stadio, mi insegnava a partecipare a un calcio non competitivo, a vedere e apprezzare le geometrie, i movimenti, gli schemi di gioco da un parterre vicino al campo, mi ha trasmesso il piacere di guardare tutte le partite con la stessa attenzione. Nella tua esperienza c’è una traccia genealogica che ti ha spinta ad amare e praticare questo sport?

La mamma è campionessa mondiale di pattinaggio artistico, ma quando la accompagnavo in pista, i pattini li mettevo solo per correre più veloce. In ogni caso sia io sia mio fratello maggiore siamo arrivati al calcio un po’ tardi, verso gli 8-9 anni, nonostante il nonno sia ex portiere e allenatore dei portieri, anche della nazionale italiana. Ricordo la prima volta che il nonno mi ha accompagnata a guardare un allenamento della squadra di calcio a 5 vicino a casa, La Giovanile. Eravamo seduti a guardare delle ragazze che giocavano e lui cercava invano di dissuadermi: “Ara che ‘e xè grandi ste qua par ti”. Dal calcio a cinque sono passata in poco tempo a quello a undici nell’Exto Schio Femminile, dove ero in assoluto la più piccola. Poi nella PGS Concordia Schio ho trascorso quattro anni in cui ho imparato a farmi spazio in un ambiente di soli maschi. Successivamente è stata la volta del Vicenza femminile, che mi ha permesso di entrare nel mondo della nazionale ed è stato il trampolino di lancio per la serie A, campionato a cui ho partecipato negli ultimi due anni con l’Hellas Verona Women. Nel corso di questi anni è stato proprio il nonno, resosi conto di quanto mi piacesse giocare e di quanto piacesse a lui avere una nipote calciatrice, a seguirmi ovunque per analizzare e commentare le mie prestazioni e ad allenare la mia tecnica di palleggio nel suo giardino.

Quanto costa vivere e assumere un ruolo in campo?

Il ruolo che ciascuna assume all’interno del campo da gioco e nello spogliatoio si definisce da sé, in base alle caratteristiche di ciascuna giocatrice e agli equilibri che si stabiliscono nella squadra. Ognuna trova il suo posto in base a ciò che di buono può dare alla squadra, certamente dal punto di vista calcistico, ma non solo. Il “talento” calcistico che ha doti di leadership, sia che indossi o meno la fascetta, sarà guida indiscussa di una squadra che la stima; il “talento” che non riesce a costruire un rapporto saldo con le compagne non troverà mai le condizioni ottimali per potersi esprimere. Ci viene ripetuto alla nausea: “una buona giocatrice con grande carisma fa più strada di un’ottima giocatrice con poca personalità”. Si tratta sicuramente di una dote innata, ma io credo che la personalità più autentica si debba costruire sull’esperienza, quando è la consapevolezza a prevalere sulla presunzione.

E giocare in un ruolo che non sentiamo congeniale?

Solitamente giocare in un ruolo che non si ritiene “proprio” non va a genio a nessuno. Nella mia esperienza ho però notato che, molto spesso, la maggiore attenzione e la maggior concentrazione che si pongono in tali circostanze migliorano notevolmente la prestazione personale. A volte, una giocatrice di qualsiasi età può riscoprirsi in un nuovo ruolo, persino più adatto ad esprimere al meglio le sue caratteristiche. Altre volte, è la giocatrice che, non sentendosi al suo posto, deve renderlo noto a chi l’allena. Ed è per questo che quello dell’allenatore è un ruolo così delicato: deve riuscire a conciliare il bene individuale e collettivo dei suoi giocatori.

Come ti senti in campo? Come ti autorappresenti come sportiva all’interno della squadra e fuori?

Penso che la mia forza all’interno della squadra risieda innanzitutto nel modo di relazionarmi con le mie compagne e lo staff. Più percepisco la loro fiducia più le mie prestazioni migliorano. Quando viene a mancare ne risento molto. Sono abituata ad avere la fiducia delle persone che mi circondano e a darne altrettanta, mi piace soddisfare le aspettative e mi aspetto lo stesso dagli altri.

Che tipo di relazione si stabilisce con il maschile (allenatore, società, terna arbitrale, pubblico)?

La maggior parte delle persone che ci circondano sono uomini, molti dei quali non ancora pienamente convinti delle potenzialità del femminile. A fianco dei realmente dediti e appassionati, infatti, alcuni nutrono ancora dei pregiudizi e tendono a focalizzare l’attenzione su dettagli futili, contribuendo a svalutare ciò che davvero conta. A mio avviso, comunque, è importante che ci siano delle figure maschili all’interno dello staff, come sarebbe auspicabile la presenza femminile in campo maschile.

Lo sport in Italia (tranne poche eccezioni: calcio, basket, motociclismo, golf e pugilato) è dilettantistico, cioè lo si pratica, letteralmente, per diletto. Se per gli sport menzionati, gli uomini sono dei professionisti, le donne, in nessuna disciplina sportiva, lo sono. Questo significa che per loro lo sport non può essere un lavoro, una fonte principale di reddito, con tutte le conseguenze che questo comporta. Alle donne atlete è imposto per legge il dilettantismo: la legge 91 del 1981, che regola il professionismo sportivo, esclude di fatto le donne. 

Le donne che giocano sono poco note e spesso rientrano in un confronto svalutante con il maschile. Le donne che giocano a calcio suscitano ancora curiosità e spesso anche tristezza. Lo sport che praticano rimane in una dimensione di svago, di divertimento, di cui spesso non si fa narrazione, racconto. Uno spazio il cui senso e significato spesso non viene interrogato. Da una parte persiste la tendenza di valorizzare lo sport femminile in un confronto omologante con il maschile, dall’altra di scadere in una serie di stereotipi che descrivono la sportiva in una accezione perlopiù sensuale.

Secondo te sta cambiando qualcosa, si sta creando un nuovo immaginario? La competenza dimostrata dalla Nazionale femminile può trasformare questo simbolico? La FGCI rivaluterà la posizione dello sport femminile?

Sicuramente il recente successo della Nazionale maggiore ha contribuito e contribuirà all’emancipazione della donna nel calcio e nello sport tutto. La strada per un’emancipazione anche nel resto della società è ancora altrettanto lunga, sono processi di lungo termine, ma è una strada che abbiamo iniziato a percorrere.

Quanto è importante valorizzare le competenze, quanto hanno poco senso i raffronti con la velocità e la performance maschile? Quali sono le tue abilità?

Si è mai sentito confrontare le performance nei 100m maschili e femminili? Mi sembra un discorso insensato, come se si facesse un test dell’attenzione diffusa e ci si lamentasse che i risultati dei maschi sono mediamente inferiori a quelli delle donne. È ovvio che non ha senso discutere in questi termini. I singoli corpi sono diversi per molteplici aspetti, la maggior parte dei quali non sono classificabili come ‘maschili’ o ‘femminili’. Le mie abilità sono quelle del mio corpo. Corro molto, i 90 minuti ce li ho quasi sempre nelle gambe, attacco l’avversaria e recupero palla. Non mollo mai, sono fastidiosa.

Il linguaggio nomina la realtà: quanto è importante cambiare linguaggio. Laura Giuliani non vuole farsi chiamare portiera, ma portiere, sei d’accordo? Le parole nominano i contesti e, se non si usano non cambiano la realtà. Cosa ne pensi?

Le opinioni in questo ambito sono molto varie. Personalmente condivido il pensiero di Giuliani e delle sue compagne, nel senso che la necessità di specificare il genere femminile è più discriminatorio del ruolo neutro della declinazione maschile nella lingua italiana. Imporre la distinzione di genere nelle definizioni comporta automaticamente una distinzione dei ruoli stessi e non aiuta l’emancipazione femminile, risultando quasi una concessione da parte del genere maschile che, però, in quella desinenza rivendica la sua superiorità. Invece, sposterei l’attenzione sulla distinzione tra “calcio” e “calcio femminile”. Perché specificarlo? Non è forse lo stesso sport con le stesse regole? E perché se ci si riferisce al calcio maschile come categoria dello stesso sport non deve essere ugualmente specificato? Piuttosto, penso sia questo il linguaggio contro cui bisognerebbe combattere. Le parole sono importanti perché la gente finisce per crederci e poi agisce di conseguenza.

Ti ispiri a qualche giocatrice della Nazionale?

In quanto centrocampista, sicuramente la mia attenzione ricade maggiormente sulle giocatrici del mio stesso ruolo. Ma c’è una distinzione da fare: se devo pensare alle giocatrici che più mi hanno impressionata non posso non nominare Alia Guagni e le centrocampiste Manuela Giugliano e Valentina Cernoia; se invece dovessi realisticamente ambire al tipo di giocatrice che potrei diventare come caratteristiche fisiche e tecnico-tattiche, penso ad Aurora Galli.

La tua esperienza nell’Hellas Verona e le convocazioni in Nazionale? Che atmosfera si vive?

L’Hellas Verona è stata la squadra con cui ho esordito in serie A e che mi ha permesso di fare esperienza e stare al passo con i ritmi sempre crescenti delle varie nazionali giovanili. Ho avuto la fortuna di vivere l’esperienza della nazionale under 16 proprio nell’anno della sua nascita e di partecipare poi agli Europei under 17 e under 19 nei tre anni successivi. L’atmosfera dipende moltissimo dalle annate, perché il rapporto tra staff e giocatrici è in continua evoluzione, ma certo è che in nazionale si respira un’aria molto più formale e l’atteggiamento da assumere non può sicuramente essere lo stesso di quello nella squadra di club.

Veniamo allo studio. Medicina? Un percorso lungo, perché questa scelta?

Ho scelto di studiare medicina già dalle elementari, prima ancora di cominciare a giocare. Il mio sogno è sempre stato quello di specializzarmi in cardiochirurgia e rimane tuttora ciò che vorrei fare. Conciliare lo studio e gli impegni sportivi diventa sempre più difficile, ma finché sarò in grado di fare entrambe le cose, non ho intenzione di rinunciare alla possibilità di portare avanti la doppia carriera.

Quanto ti aiuta il Programma Academic Coach nella conciliazione studio-impegni sportivi? I punti di forza del programma, come ti segue il tuo/a tutor?

Ho appena concluso il primo anno e per ora non ho avuto grande necessità di approfittare di questa opportunità, ma sicuramente il mio tutor si è dimostrato davvero disponibile e il suo aiuto mi tornerà utile molto presto. Penso che sia fondamentale soprattutto il fatto che il tutor abbia già frequentato gli stessi corsi, potendo quindi dare importanti consigli inerenti allo studio e alla sua organizzazione.

Quanto occorre ancora fare affinché chi fa sport e studia non sia penalizzata?

All’inizio di questo primo anno di Medicina, mi sono trovata davvero in difficoltà, dato che sembrava non ci fosse nessuna facilitazione per lo studente-atleta. Soprattutto per quanto riguarda la frequenza obbligatoria, il problema permane: la difficoltà per uno studente-atleta o uno studente-lavoratore di conciliare le sue attività, che possono anche essergli economicamente indispensabili, è a volte accompagnata da una certa diffidenza. Non capita spesso, ma quando accade mi lascia davvero basita.

Quanto impegno richiede il “doppio lavoro”?

La “doppia carriera” richiede inevitabilmente un grande sforzo, che vede continuamente la necessità di compromessi e sacrifici. Nel momento in cui si decide di intraprendere questa strada bisogna mettere in conto che non bastano passione e dedizione, ma è essenziale anche una grande organizzazione. A volte c’è bisogno di prendere in mano la situazione e rimboccarsi le maniche, altre volte di allentare la presa e concedersi un po’ di riposo. Fortunatamente la mia famiglia non mi mette pressione al riguardo, sanno che fare due cose contemporaneamente probabilmente richiederà più tempo che farne una soltanto. Ma non c’è problema, non siamo dei fanatici del tutto e subito, ma ci piace arrivare dove vogliamo.

Come hai scoperto Academic Coach? Lo consigli e perché?

Academic Coach mi è stata presentata dal mio direttore sportivo, date le mie richieste di aiuto per conciliare calcio e università. Lo consiglio perché vi ho incontrato persone molto dedite alla causa, che si impegnano per aiutare il più possibile studenti come me, incentivandoci a perseverare nel tentativo di non trascurare lo studio o lo sport. Non c’è un merito particolare nel fare le cose da soli, questo me l’ha insegnato il calcio.

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